mercoledì 25 novembre 2015

La fortuna arride ai traduttori audaci

Potrei citare Steve Jobs e il suo garage, Meryl Streep e la sua risposta pronta, gli impressionisti con il Salon des Refusés o la Rowling e gli innumerevoli rifiuti delle case editrici per il primo volume della saga di Harry Potter, ma come al solito ho deciso di attingere a qualcosa che mi è proprio. Dunque, visto che quest’anno a teatro ci stanno raccontando anche dei grandi autori e teorici del teatro, citerò Eugenio Barba.

Eugenio Barba

Ai suoi esordi Eugenio Barba, oggi grande attore e regista teatrale, aveva deciso, dopo essersi laureato in Norvegia ed aver studiato recitazione in Polonia e India, di tornare nel paese dei fiordi e proseguire lì la sua carriera. Purtroppo, però, come attore non venne accolto perché straniero. Quindi cosa fece? Si rivolse ad alcuni giovani che non avevano superato i test di ammissione alla Scuola Teatrale di Stato di Oslo e nel 1964 creò insieme a loro l’Odin Teatret, oggi realtà di spicco del teatro contemporaneo.Un bel modo di reagire, vero?

Sì sì, lo sappiamo tutti che “non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza” e che “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria” e blablabla. Volevo tuttavia parlare di Barba per ricollegarmi a un’intervista a una traduttrice che ho di recente ascoltato su un podcast.

La collega raccontava di come, dopo aver collaborato per anni per alcune agenzie fisse, aveva di colpo perso gran parte dei suoi clienti, che alle sue tariffe avevano preferito i molto più economici servizi di traduzione automatica e post-editing. Dopo essere piombata in un primo periodo di confusione e crisi, la collega aveva reagito iniziando a curare molto di più il networking e, col tempo, ad accompagnare l’attività di traduzione con un servizio di coaching dedicato ai colleghi.

In pratica, l’inaspettata carenza di lavoro l’aveva posta giocoforza di fronte alla necessità di prendere coscienza di se stessa in modo diverso, di trasformarsi da traduttrice in imprenditrice. Come Eugenio Barba, di fronte a una difficoltà si era rimboccata le maniche e si era reinventata, cercando di attingere dentro di sé a risorse insospettate. Risorse che forse, senza uno stimolo dettato dalla necessità, non avrebbe mai scoperto di avere.

“È tutta questione di mindset”, spiegava. “Mentalità”. Nonostante gli innumerevoli anni di esperienza, durante tutta la sua carriera non aveva fatto altro che comportarsi come fosse stata una dipendente delle agenzie con cui collaborava. Non aveva mai dovuto sviluppare l’imprenditorialità, ovvero quell’attitudine propria di un imprenditore, per l’appunto, volta alla costante ricerca di soluzioni nuove per presentarsi, aggiornarsi, sviluppare e ampliare con regolarità i propri servizi. Allo stesso modo non si era mai messa in condizione di correre i rischi che l’attività di imprenditore comporta.

Una volta attinto alla propria audacia, la collega ha trovato la fortuna pronta ad arriderle. Eppure mi domando: c’è modo di sfruttare a pieno le proprie risorse senza dover per forza attendere uno stimolo esterno?

Secondo me, sì. Non a caso, infatti, imprenditoria e imprenditorialità sono le parole chiave dei programmi delle scuole del domani, così come di molti progetti dell’Unione europea dedicati appunto alla formazione. Questo significa che, come nel caso della collega intervistata, imprenditori non si nasce, si diventa. Ma è anche importante ricordare che la strada in questo senso non è univoca e uguale per tutti, proprio perché bisogna imparare a valorizzare se stessi per le caratteristiche uniche che ci distinguono dagli altri. Quindi c’è chi decide di dedicarsi alla traduzione e all’insegnamento, chi di specializzarsi in un settore molto specifico, chi ancora di studiare una terza o quarta lingua. Quale che sia la strada che si decide di percorrere, l’unica cosa che non bisogna dimenticare di portarsi sempre dietro è un pizzico d’audacia; la fortuna verrà da sé – in Norvegia, Italia o altrove, poco importa.

E voi, quanto vi sentite audaci?

Grazie per avermi letto. Se avete voglia, ditemi cosa ne pensate o se vi è capitato qualcosa di simile lasciando un commento.

7 commenti:

  1. Riferisco il mio caso.

    Nel 2001 sono entrato in una grande multinazionale di telecomunicazioni dove, sin da subito, mi sono occupato di analisi dati. Nel 2005 il mio carico di lavoro, a seguito di una repentina riorganizzazione, era divenuto improvvisamente insopportabile. E siccome piove sempre sul bagnato, allo stesso tempo era divenuto impossibile (almeno per qualche mese) ricorrere al supporto di figure interinali.
    Ho vissuto alcune settimane davvero frustranti. La mia attività si basava sull'utilizzo di programmi standard come Microsoft Excel e Access. Non sapevo nulla di programmazione in VBA e non avevo alle spalle alcuna esperienza o formazione scolastica in tal senso.
    Ho così deciso di cercare qualche manuale per principianti. Ho trovato quattro testi sull'argomento per un valore complessivo di 60 euro. Ho comunicato le mie intenzioni e la mia idea all'azienda spiegando che la programmazione avrebbe avuto importanti ricadute positive sul mio lavoro e non solo. Ho chiesto che mi rimborsassero l'acquisto di quei testi, ma la risposta (ridicola) è stata negativa. Così me li sono comprati da me e ho iniziato a studiare la sera.
    Fortunatamente il periodo era favorevole a ciò in termini di tempo extra a mia disposizione. Ero nella fase di transizione dalla mia ex fidanzata estone alla mia successiva fidanzata lituana (oggi mia moglie); in pratica a casa mia non c'era nessuno all'infuori di me.
    La cosa interessante è il fatto che, più che la teoria (certamente irrinunciabile), la vera molla che ha cambiato le cose è stata la pratica, ovvero la possibilità di applicare i concetti della programmazione a una moltitudine di concretissimi casi reali. Aspetto, questo, che ha agito come un potentissimo acceleratore.
    Nel giro di qualche settimana ho potuto abbassare sensibilmente il mio carico di lavoro e nell'arco di qualche mese sono diventato un riferimento in azienda.

    A metà del 2013, quando si è presentata l'occasione propizia, ho lasciato la multinazionale e mi sono messo in proprio.
    Oggi faccio esattamente quello che mi piace: analizzo dati, offro soluzioni, risolvo problemi, presento strategie, organizzo il lavoro degli altri.

    Lavoro da casa, con enormi vantaggi: niente stress da spostamento, sono più vicino alla mia famiglia, non ho bisogno di prendere permessi quando mi serve fare commissioni, andare da medico, ecc., ho bassissimi costi di carburante, contribuisco molto meno all'inquinamento del pianeta, mangio a casa in modo sano e rilassato, mi prendo 30 minuti almeno di pausa/sonnellino dopo pranzo, ma - sopratutto - ho una produttività molto superiore. Quindi... sono contento :)

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  2. Ho scordato due elementi:

    Quello relativo all'audacia: ho lasciato la multinazionale (che non mi avrebbe mai mandato via) contro il parere di tutti quelli che avevo intorno (salvo rare eccezioni, come mia moglie).

    Quello relativo al realismo: lavorare da casa oggi, in Padania, nel 2015, non è segno di specialità, coraggio o chissà cosa, ma di normalità, persino di ritardo. Sarebbe stato qualcosa di speciale (o almeno di degno di menzione) se lo avessi fatto 10-12-15 anni fa. Le cose vanno sempre viste nella giusta prospettiva.

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    1. Un bellissimo lieto fine. Oltre al coraggio, ci sono spirito di iniziativa e intraprendenza. Altri nella tua stessa situazione del 2005 avrebbero probabilmente continuato ad accusare la fatica senza cercare soluzioni in autonomia, soprattutto dopo la risposta negativa dell'azienda. Vedrei il tuo comportamento del 2013 già come frutto di un'attitudine imprenditoriale, in cui rientra anche il successivo coraggio di lasciare una certezza (un lavoro stipendiato che, come tu stesso dici, non era a rischio) per una realtà meno nota.

      Se è vero che lavorare da casa non è segno di specialità, bensì dei tempi, è altrettanto vero che se alcuni vi sono arrivati per naturale decorso di cose, per te è stata una scelta ponderata - ma non per questo condivisa da molti.

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  3. Non posso che ringraziare per le belle parole :)

    Quando ho deciso di lasciare l'azienda avevo 43 anni, una moglie che non lavorava (e non lavora tutt'ora) e una bimba piccola. Mi sono detto: ora o mai più!
    Mi sono anche chiesto: chissà cosa avrebbe detto mio padre se fosse stato vivo. Domanda a cui ovviamente è impossibile rispondere.

    Per un certo periodo ho maturato l'idea di importare birra dalla Lituania e in tal senso ho anche preso accordi con un produttore di Vilnius. Poi la realtà di qui mi ha fatto capire che avrei fatto meglio a cambiare strada. Il mio sogno però rimane ancora quello di avere una spina di birra sul soffitto, proprio sopra il tavolo della sala da pranzo, con un tubo flessibile e una pistola che pendono in modo da poter riempire il mio boccale comodamente. Roba da nuovi Russi insomma :)

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    1. Apperò! Credo che a tanto non ci sia arrivato nemmeno Homer Simpson ;P

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  4. Bell'articolo, ma non sono d'accordo sul fatto che imprenditore si diventa, credo invece che c'è chi sappia fare di necessità virtù e chi preferisce star seduto ad aspettare che qualcosa arrivi... Per cui c'è chi è nato per essere autonomo e chi per essere dipendente =) baci!

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    1. Ciao Roberta, benvenuta. In un certo senso sono d'accordo con te, perché è vero, ritengo che chiunque possa diventare un imprenditore, a patto però che questa trasformazione sia alimentata da un bell'atto di volontà in tal senso. E la volontà non la si compra un tanto al kg ;)

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